Sulla Mia Pelle è un film che fa male. Ho avuto questa sensazione addosso quando il film è finito e un’emozione, si sa, non la si può negare. Ma perché Sulla Mia Pelle colpisce così tanto?
Non è la rabbia, come succede in molti casi di ingiustizia, il motore principale che ti segna e ti lascia una sensazione forte. Secondo me infatti questo non è un film “contro le guardie”. Non è un film che generalizza sulle persone, ma condanna degli atteggiamenti. Atteggiamenti errati che potremmo ricevere tutti in contesti dove dobbiamo rapportarci con chi in quel momento ha una qualche forma di potere su di noi.
Gli atteggiamenti (sbagliati) del potere
Ad esempio tutti siamo stati male, sia mentalmente che fisicamente, e quelli che immaginavamo avrebbero dovuto aiutarci e proteggerci sembravano ignorarlo. Stefano è passato in stazioni, carceri e a nessuno è venuto in mente di capire un po’ di più sul perché fisicamente fossero ridotto male. Quante volte ci è capitato? Quante volte il nostro malessere è stato minimizzato dai nostri genitori, dai professori o da chi volevamo bene e di cui ci fidavamo?
Ci si sente intrappolati. Costretti a mentire per evitare il peggio. E questa è un’altra cosa con cui tutti noi ci siamo scontrati. L’impossibilità di raccontare la nostra verità per paura di non esser creduti, per paura di perdere la nostra dignità e il rispetto che meritiamo anche se, presumibilmente, avevamo compiuto degli errori e già quello ci fa vergognare.
Cosa ci lascia un film come Sulla Mia Pelle? Frustrazione e tristezza?
No. Secondo me la più grande lezione che questo film può insegnarci è capire come possiamo comportarci quando capiterà a noi di trovarci in una situazione in cui abbiamo un potere. Quando saremo noi genitori, professori (in senso lato), capi o semplicemente amici di cui altre persone si fidano per amore.
Irene Fachieris nel suo libro Creiamo Cultura Insieme descrive bene qual è il motore che può portare un cambiamento parlando di empatia. Irene dice “L’empatia ci permette di comprendere l’altro, cioè di capire come stia vivendo le emozioni che dice di sentire. […] Empatizzare significa comprendere come l’altro si stia sentendo. Non giustificarlo nè condividerlo ma neanche minimizzarlo. Per alcuni versi non aver vissuto quello che ha vissuto l’altro ci facilità l’essere empatici, perché non dimentichiamo il rischio di prestare l’attenzione all’altro e cominciare a passeggiare sul viale dei nostri ricordi.”
E la conseguenza di non porci in una condizione di empatia è che generiamo comportamenti dannosi per l’altro. Che vanno da cose più blande, come il moralizzare, fino a cose più gravi come minacciare (verbalmente o fisicamente). Se vogliamo quindi che la morte di Stefano servi a qualcosa dobbiamo impegnarci, allenarci e migliorare affinché nessuno possa mai sentirsi in pericolo per causa nostra. Cominciamo da noi.
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