Di talent show ne esistono in qualsiasi ambito. I più famosi sono quelli di cucina, mentre quelli riguardanti il Design della Moda scarseggiano. Se escludiamo Project Runway infatti, solo Netflix ha un suo talent show dedicato alla moda.
Questa primavera però è successo qualcosa: dopo 16 stagioni di Project Runway Heidi Klum e Tim Gunn hanno deciso di creare insieme ad Amazon un nuovo reality, da distribuire sulla piattaforma di Amazon, Prime Video. Ne è uscito fuori Making The Cut, un talent che in un certo senso si allontana dalla classica idea di far sfidare degli stilisti per eleggerne il migliore.
Making The Cut: non solo stilisti
Molto più vicino a Next In Fashion di Nextflix, Making The Cut mette insieme persone che hanno già un brand, o che hanno un’idea ben precisa di un loro brand (per quanto non abbiano già un punto vendita), con l’idea di premiare colui che sarà in grado di portare avanti il prossimo brand globale – grazie ad un tutoraggio con Amazon Fashion e un premio di un milione di dollari.
Non si tratta quindi semplicemente di saper realizzare delle creazioni, di essere dei bravi stilisti. Ad esempio non sono richiesti obbligatoriamente delle competenze sartoriali: ad ogni concorrente viene affidato un team di sarte. Per cui, oltre a creare l’abito, il concorrente deve essere in grado di trasmettere l’idea e la manifattura a chi poi dovrà realizzarlo. Una cosa che si avvicina più al concetto di direttore creativo – ed è questa la novità importante di questo reality, secondo me.
Mi è subito piaciuto l’idea perché portava al largo pubblico il concetto che il Fashion non sia solo stile e creatività. La moda infatti è un’industria economica e come tale unisce alla creatività anche delle scelte imprenditoriali. E questa è un punto che viene messo sempre da parte quando si parla di lavori creativi. Come se la creatività in sè vendesse.
I limiti di Making The Cut
Uno dei limiti più grandi che però ho riscontrato in Making The Cut è la solita idea pregiudiziale per cui solo un tipo stile può definire un brand globale.
Per tutta la competizione i giudici continuano a dire di voler premiare non solo le creazioni, ma anche l’imprenditore che c’è dietro. Quello che ha un’idea convincente. E per questo chiedono ai creativi di creare due versioni del loro look, una più “libera” e una più accessibile. E ogni volta le persone ci riescono, chi più o chi meno, dimostrando che ogni stile può avere una sua versione accessibile.
Ma alla fine Making The Cut premia (non voglio spoilerarvi, ma ve ne renderete conto da soli) il brand che abbia già un’identità di stile di largo consumo. Nonostante l’intento sia quello di premiare chi ha un’idea valida, cadono nel tranello di basarsi su ciò che già potrebbe vendere. Quello che stilisticamente è già nei negozi e che presenta un po’ di novità. Cadono insomma nell’idea che per essere un brand globale il tuo stile deve essere uno stile di largo consumo.
E questo è un grande pregiudizio. Un pregiudizio che non permette alla moda di svilupparsi in maniera diversificata, da un lato, e che non permette neanche alle persone di poter sviluppare un gusto diverso da ciò che gli viene già proposto.
L’avant-garde può essere di largo consumo
Nella competizione ci sono almeno tre creativi (Esther, Sander e Santo) che portano avanti uno stile avant-garde. Uno stile che in realtà ha in sè tante diversificazioni: Esther ad esempio parte dalla cultura underground, Sander prende spunto dall’alta moda, Santo guarda molto al minimalismo.
Il messaggio del programma è che queste persone non possano creare un brand globale, ma solo di nicchia. Perchè le loro scelte stilistiche non sono di largo consumo. Perchè c’è chi non usa le stampe, c’è chi non usa i colori, c’è chi non ama fare le t-shirt tradizionali.
Questa idea però va a scontrarsi con la realtà di stilisti come Rick Owens, Isee Miyake, Yamamoto, Kawakubo o di brand come Demobaza. Stilisti e brand che hanno un’estetica non generalista, ma che restano comunque brand globali. Che vendono in tutto il mondo, perchè in tutto il mondo ci sono persone che amano stili diversi.
Perchè il mondo è fatto di persone diverse e anche le stesse persone amano poter non indossare sempre le stesse cose nello stesso stile. Soprattutto se gli si dà la possibilità di trovarle, di conoscerle, di amarle! Evitare che ciò accada crea solo un circolo vizioso in cui queste cose rimarranno di nicchia non tanto a livello di vendite, ma a livello proprio di gusto stilistico.
La moda maschile come poco sperimentale
E poi c’è il problema della moda maschile! Nonostante nella competizione si cerchi di andare al di là del concetto di taglia, facendo sfilare modelle dalle taglie diverse (cosa che ho trovato davvero bello), resta ancora il limite legato al genere: pochi gli abiti maschili e sempre poco sperimentali.
Questo però non è un limite dello show. È un limite della moda: della moda di come viene insegnata ai designer, di come viene raccontata, di come viene venduta, della fossilizzazione sul femminile come unico ambito di sperimentazione.
Nel 2020 non può essere più così. Non voglio neanche parlare della moda genderless, ma semplicemente non ci si può non accorgersi che tra noi vivono sempre più persone che amano persone dalle identità più disparate. Persone che cercano anche loro, come tutti, attraverso la moda il loro modo di esprimersi. E non può questo essere relegato solo a pochi brand sperimentali di nicchia!
È impossibile che la moda non si accorga di tutte queste persone. È impossibile che non capisca che queste persone esistono e che queste persone devono vestirsi. Non è possibile che la moda maschile sia ancorata a stilemi di 200 anni fa nonostante la società sia andata avanti e non sia più come 200 anni fa.
Insomma, Making The Cut ha sicuramente il merito di mostrare un lato imprenditoriale della moda che molti ignorano, ma dobbiamo cominciare a rivoluzionare anche il concetto di stile di largo consumo e comprendere che l’uomo oggi ha varie visioni di mascolinità e bisognerebbe essere in grado di sperimentare e progettare per ognuna di queste, non solo per una.